La Venere di Palestina
commento critico di Floriana Carosi

“Resteremo qui.
Noi custodiremo l’ombra del fico e degli olivi […]
Se saremo assetati spremeremo il deserto
E mangeremo polvere se avremo fame
Ma non ci muoveremo!
Qui abbiamo un presente, un passato e un futuro…”
(Tawfik Zayyad, “Resteremo qui”)

All’interno del percorso artistico di Antonio Fraddosio dove i cicli creativi spesso si sovrappongono e si raccordano fra di loro con opere di collegamento, La Venere di Palestina, rappresenta il nodo che unisce i cicli “Resistenti oltre” e “Salvarsi dal naufragio”.

L’opera rappresenta un monumento di grande valore espressivo e drammaticità dedicato ai morti civili delle guerre. È il corpo di una donna di Palestina, terra che da troppo tempo non conosce pace. È il corpo simbolico di un popolo sofferente, quello palestinese, che da oltre 75 anni è straziato non solo dalle guerre ma da soprusi, violenze e umiliazioni da parte di un nemico che tenta di negare la sua stessa esistenza, cancellarne l’identità e la cultura, di falsificarne la storia e di distogliere l’attenzione del mondo dai suoi legittimi diritti.

Ma la leggendaria fermezza del popolo palestinese e la sua coraggiosa resistenza così radicata come gli alberi di ulivo di quella terra, non si ferma di fronte al colonialismo israeliano che ha come obiettivo la conquista del territorio e l’eliminazione della popolazione nativa.

I Palestinesi sono i “I Resistenti Oltre” del terzo ciclo di opere di Fraddosio nel quale l’artista ha voluto richiamare l ’attenzione su alcuni personaggi del passato recente che hanno fatto della lotta per la libertà e per il progresso il fine della loro stessa esistenza. Non solo. I numerosissimi palestinesi “deportati” dalle loro terre che vivono in esilio o in campi profughi disseminati in tutta la Palestina si uniscono anche alla massa dei disperati migranti del quarto ciclo “Salvarsi dal Naufragio” che per fuggire dalla fame e dalla guerra del sud del mondo trovano la morte, come ricorda l’opera “L’isola nera 2013 annus horribilis” (Roma, MACRO) realizzata a seguito del terribile naufragio avvenuto nel 2013 a largo di Lampedusa.

Il corpo nudo della dea-donna si ispira allo schema della Venere classica parzialmente coperta da un drappo che qui diventa un “sudario” di lamiera incendiata fortemente accartocciata che avvolge e protegge il corpo della donna, le copre il viso come atto di estrema pietas e allo stesso tempo ne trafigge le carni già martoriate.

Il forte impatto emotivo di quel corpo nudo, e quindi, più “vero”, colto nella sua condizione di drammaticità è accentuato anche dal contrasto materico tra l’antica pietra di nenfro utilizzata dall’artista per la resa delle carni e la lamiera del drappo deformata dal forte calore sapientemente modellata su di esse.

Eppure, se si osserva attentamente il corpo della donna, esso è solido, forte, emana sensualità, “disperata vitalità” nonostante sia martoriato da ferite. Quel corpo diventa così simbolo di speranza e di rinascita del popolo palestinese che resiste e risorge continuamente e non potrà mai essere del tutto annientato.

La Venere giace su un altare anch’esso violato nella sua sacralità in quanto colpito come il corpo della donna. L’artista lo ha realizzato in lamiera spazzolata quindi lucidata, tecnica che conferisce levigatezza e splendore a tutta la superficie del basamento tranne in un’area angolare dove Fraddosio utilizza di nuovo la lamiera incendiata per “ricostruire” la zona distrutta che sta cedendo per i colpi subiti. Qui l’artista evidenzia un concetto già espresso nelle opere del secondo ciclo “Costruire la distruzione” e in altre successive, quello della “distruzione   costruita”. Ovvero, quella che è l’apparente immagine caotica di un’opera, (materie spezzate o tese al limite di rottura e incastrate tra loro) è il frutto di un’attenta composizione così come la reale sistematica distruzione delle società viene realizzata con una precisa e attenta strategia.

Questo concetto di “Male” assoluto, invisibile e subdolo che costruisce la distruzione di tutto, ingabbiando idee, ideali e la stessa coscienza dell’uomo, sarà ampiamente ripreso successivamente dall’artista nell’opera “Chi è il ragno”emblematica dell’ultimo ciclo “Superare con la ragione gli stati limite ultimi”. Realizzata tra il 2020 e il 2022, anni di pandemia complicata dalle terribili guerre aperte nel cuore dell’Europa e del Medio Oriente, l’opera rappresenta il conflitto messo in atto dall’umanità (le forme sono corpi che cercano di divincolarsi) contro il nemico, un ragno invisibile (il “Male”) che con grande pazienza e precisione tecnica ha costruito il proprio “leggero” strumento di tortura, la ragnatela, per “incatenare” la preda.  Il “Male” per l’artista non si identifica con un essere malvagio, ma con un sistema cui collaborano diversi “demoni”, tra cui noi stessi, ostaggi e complici allo stesso tempo della ragnatela che ci avvolge; noi che non ci interroghiamo più su nulla e non abbiamo più il coraggio di guardare la realtà nei suoi orrori, legittimandoli, anzi, con la nostra mediocre cecità.

Tuttavia, è difficile rimanere spettatori silenziosi e indifferenti dinanzi alla drammaticità della Venere di Palestina e alla forza delle parole di Fraddosio, artista eticamente impegnato e “militante”, che ci esorta a “… […] raccogliere tutte le nostre energie per reagire a tutto questo…e ad essere “rivoluzionari”, tutti insieme…,”. Ricorda lontanamente il filosofo francese Michel Foucauld che spesso amava ripetere “La Rivoluzione sarà etica o non sarà mai”.

Floriana Carosi