11 Mar L’arte contemporanea colpisce direttamente l’anima
(a cura di Nicoletta Bartolini)
Arte contemporanea, che mistero. Come si fa a prendere legno, cartone, stucchi, ferro, lamiera e a trasmettere il dolore, l’angoscia del tempo che passa e corrode escludendo l’opera dell’uomo – assente e impotente di fronte a questo processo – provocando distacchi e scissioni, aggrovigliando i sentimenti e i pensieri, lasciando dietro di sé muffa, ruggine, ruderi? Antonio Bernardo Fraddosio può fare questo ed altro, regalandoci grandi emozioni con la sua mostra personale, inserita nella splendida e imponente cornice dell’Archivio Centrale dello Stato (p.le degli Archivi, 27 – Roma Eur – h. 15-18), fruibile gratuitamente fino al prossimo 16 marzo.
L’arte contemporanea va guardata con molta attenzione, va osservata e soprattutto “sentita” perché il messaggio arriva meno all’occhio, colpisce direttamente l’anima. E’ forse meno immediato, certamente non meno intenso.
Ha un tono pacato, sorride lievemente. Non ho avuto bisogno di porre la prima domanda, siamo di fronte alle sue opere, già in comunicazione perfetta. Continua:
Il messaggio ognuno deve andare a cercarlo dentro di sé, anche se quello che sicuramente viene trasferito è una certa inquietudine, una realtà che viviamo tutti, che non è circoscritta al nostro microcosmo, ma è universale.
In questo “Groviglio” sembrano rincorrersi e contorcersi pensieri, emozioni, fa un po’ soffrire e l’occhio si perde tra quei fili che si rincorrono e si intrecciano, una vera “cartografia dello spirito”, come sono state definite le tue opere …ma tutta quella ruggine?
Non è certo colore, non lo uso. I bianchi non sono pigmentati, ma naturali e quindi stucchi e gessi, impasti che danno tonalità differenti. Queste sono ossidazioni, efflorescenze che lascio affiorare, lavorandole per dar loro una qualità estetica. E occorre del tempo per questo, bisogna aspettare. Ecco la materia del tempo…
E quindi quale è la materia del tempo, secondo te?
Il tempo ha sicuramente una sua una materia, che i fisici tentano di studiare, ma per me la materia del tempo è il giorno che segue un altro giorno, la notte, gli anni che passano, l’emergere del passato, il che vuol dire che qualcosa, o molto, “è stato”.
L’artista rappresenta quello che ha dentro, già nella scelta del tipo di materiale. Perché quindi legno, ferro…?
La mia ricerca è tutta imperniata sull’uso di materiali di recupero, materiale abbandonato nei cantieri o nei laboratori artigiani e che è stato lasciato lì, in balia dello scorrere del tempo. In questa società che divora e brucia rapidamente tutto, io cerco di recuperare questo materiale, che ha già un passato, la presenza del tempo all’interno di sé e lo sottopongo ad operazioni che enfatizzino tutta la sofferenza che nasconde al suo interno, che è poi la sofferenza interiore di tutti noi, fino a farne un’opera d’arte.
L’andare del tempo sembra spesso dimenticato nel nostro vivere quotidiano, quasi fosse dominio dell’uomo, quasi non dovesse finire mai. Questi “Ruderi metropolitani” dove sono stati disseppelliti, chi li ha abbandonati e perché?
Questa è un’opera iniziata e non finita oppure è un’opera che un tempo era stata realizzata e poi è stata distrutta da un qualche evento traumatico? Non sappiamo, è comunque un rudere, che potrebbe essere alla fine della sua esistenza o bloccato all’inizio della vita stessa. Un feto mai nato. Periferia devastata.
Periferia, deterioramento… pensiamo a Pasolini?
Pasolini è per me il più grande poeta del Novecento, oltre ogni polemica e altra considerazione. C’è una poesia che amo in particolare e che aderisce perfettamente a questa opera, ai Ruderi Metropolitani:
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.
In questo video la legge Orson Welles durante le riprese de “La ricotta” in RoGoPaG, in mano il libro “Mamma Roma”:
Stiamo toccando un argomento che sta particolarmente a cuore alla Scuola Omero, la letteratura: ci sono altri autori che hanno influenzato la tua opera o che apprezzi in modo particolare?
Mi rifugio nei miei classici a cui sono molto legato, i narratori del 900 – non solo italiani, ma anche europei – perché sono profondi indagatori dell’animo umano. La letteratura più recente invece, tende a valorizzare le emozioni forti, e questo purtroppo vale anche per l’arte, cose che abbiano un grande impatto emotivo, senza andare a toccare sottilmente l’essenza, l’anima. Altri autori che mi hanno influenzato? Potrei citare Quasimodo per la luce… Montale per gli “inutili detriti” e poi Ungaretti :
“Di queste case/non è rimasto/che qualche/brandello di muro/(…)/E’ il mio cuore/il paese più straziato”
(S. Martino del Carso)
Mi sembra di cogliere una vena di tristezza profonda, che sottilmente inizia a pungere fin dalla prima opera qui in esposizione, passa attraverso le tue parole ed esplode poi in alcune rappresentazioni. Ad esempio questa: “Scissura”, che letteralmente significa divisione, discordia ed è comunque un chiaro segno di separazione insanabile di un insieme. Ti riconosci un po’ di pessimismo?
No. E’ la vita che è così. Noi siamo lacerati, anche se possiamo far finta di niente..
Qui, in “Scissura”, c’è uno strappo deciso, che sale, si riprende, provoca un distacco… ma c’è un filo che tiene, in tutti i sensi, anche tecnico, poiché appunto il materiale è sempre portato all’estremo, a un niente dal cedimento. Ecco: uno strappo, che potrebbe essere definitivo… però con un legame, anche sottile, che comunque resta.
Difficilmente opero dei distacchi definitivi, perché noi non ci stacchiamo mai definitivamente dalle cose, crediamo di staccarci, cerchiamo di farlo, ma il passato….
Vedi, in qualche maniera, noi riusciamo sempre a insabbiare le nostre ansie, più o meno. Cerchiamo di coprirle, di allontanarle. Ma ci sono, e io in questo modo le libero, anche portando il materiale stesso quasi al punto di rottura; c’è proprio un’opera che si chiama “Materia al limite”. Al limite, come lo sono spesso anche le nostre vite. Perché ogni materiale ha un limite di sopportazione oltre il quale si strappa, si spezza.
Una curiosità sui nomi delle opere. “Rigonfiamenti”, “Fratture”, “Tensioni”, “Sfibramenti”…
Sono in parte ripresi dal vocabolario dell’ingegneria, che sanno identificare una condizione di un materiale, e che ritroviamo persino in medicina, ma sanno così ben adattarsi ai nostri sentimenti – anche in psicanalisi vengono usati gli stessi termini. E psicanalisi = mente = anima. Si chiude il cerchio, no?
Davanti a “Torsioni”, così complessa nella struttura e libera nello spazio, senza un riquadro, non iscritta in un perimetro geometrico, lasciamo di nuovo la parola alla poesia, alle emozioni che sa comunicarci Baldo Meo:
Nessun dio ha dormito in queste celle.
Tutti i giorni un messaggero opaco
invoca la parusia grandiosa.
Vicino all’ora delle stelle precoci,
da questa grata guardo
e medito sulle contorte assi
di una casa sconvolta dal vento.
Davanti non fiorisce l’oleandro
né si sparge l’odore della menta.
Non chiede di noi
l’ospite che abbiamo visto entrare.
Antonio Bernardo Fraddosio, architetto, scultore, pittore e anche scenografo, in quale “corrente” o stile ti riconosci?
Io sono inserito nel filone dell’arte contemporanea informale italiana (vedi ad esempio il Fontana o il Burri, con il quale ultimo alcuni mi ritengono in antitesi). Tengo a sottolineare che questo genere di opere possono essere realizzate soltanto da un artista italiano, perché è presente molto classicismo e una cura nella rappresentazione della materia che è tipica dell’arte rinascimentale classica.
Alcune opere sono davvero imponenti, oltre che per l’emozione che trasmettono anche per le dimensioni, come ad esempio questa “Sconnessione” o la recentissima “La materia del tempo”, che dà il titolo alla mostra (e che chiuderà questa intervista), richiedono riflessione, osservazione. Bisogno di spazio e di tempo, quindi
Difficilmente riesco a lavorare su piccole dimensioni anche perché il materiale che uso ha bisogno di spazio per potersi piegare. Alcune opere possono essere definite – come qualcuno ha fatto – dei “racconti”, proprio per le varie sensazioni che rappresentano e suggeriscono. E quindi vanno osservate attentamente, da varie prospettive, da lontano, a volte intorno, ma sempre anche da molto vicino. Sono felice quando l’osservatore si accosta all’opera e la scruta, la analizza, cercando quasi di entrarvi fisicamente. Come faccio io, quando creo.
Avrei ancora molto da chiedere e soprattutto ancora tanto resterei ad ascoltare. Ma chiuderò con un’ultima domanda sulle scelte di vita. Quanto costa dedicarsi all’arte, in qualunque forma essa possa esprimersi?
Può costare tanto, certo. Ho coltivato per anni questa mia ricerca, continuando a lavorare. Ma a un certo punto della mia vita ho fatto una scelta e ho cercato di far coincidere il mio lavoro con la mia passione, perché altrimenti che cosa resta?
Ora vivo in provincia, tranquillo. Torno sempre a Roma, che amo e che sa darmi forti stimoli, che però riesco a mettere in ordine e rielaborare soltanto nella quiete della mia casa.
Ovviamente questo è molto difficile e implica una serie di rinunce, ma se c’è una motivazione forte le scelte si fanno. E le rinunce costano meno.
“La materia del tempo”.
Esco da questa esposizione un po’ malinconica, infinitamente più ricca.
Antonio Bernardo Fraddosio nasce a Barletta nel 1951. Trasferitosi a Roma sceglie la facoltà di architettura dopo aver frequentato studi artistici. Si laurea giovanissimo e intraprende un’intensa attività di progettazione nei diversi settori dell’architettura, dell’urbanistica e del design.
Svolge attività didattica presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Roma “La Sapienza” e insegna “arredo architettonico” presso l’Istituto Europeo di design. Il suo interesse per la storia dell’architettura e la storia dell’arte lo inducono ad intraprendere iniziative per il recupero e la protezione del patrimonio storico-artistico. Nel 1998 espone alcune opere nell’ambito della rassegna europea “Artisti per il 2000”, promossa dalla New European Art Research, nella Galleria Navona 42 a Roma; nel 2000 partecipa alla manifestazione “12 artisti per il Giubileo”; nel 2004 presenta dodici grandi opere nella mostra “Tensioni e Torsioni” curata da Gabriele Simongini nel Teatro Valle, infine nel 2007 è invitato a partecipare alla mostra “Baltico – Mediterraneo, Italia e Finlandia a confronto” curata da Sergio Rosi. Si misura, di recente, anche con il teatro, attraverso la realizzazione di scene che, nella volontà di interpretare il testo, assumono forma di sculture “abitabili”. Tra le scenografie più significative: “L’odore” di Rocco Familiari, regia di Augusto Zucchi, Festival dei Due Mondi, Spoleto 2003; Pavllosky, regia di Emanuela Giordano, Teatro Spazio Uno, Roma 2004; “Amleto in prova” di Rocco Familiari, regia di Mario Missiroli, Festival dei Due Mondi, Spoleto 2004; “Agata” di Rocco Familiari, regia di Walter Manfré, Teatro di Messina, 2005. Vive e lavora a Tuscania.
Intervista originale su Omero.it