Stiamo toccando un argomento che sta particolarmente a cuore alla Scuola Omero, la letteratura: ci sono altri autori che hanno influenzato la tua opera o che apprezzi in modo particolare?
Mi rifugio nei miei classici a cui sono molto legato, i narratori del 900 – non solo italiani, ma anche europei – perché sono profondi indagatori dell’animo umano. La letteratura più recente invece, tende a valorizzare le emozioni forti, e questo purtroppo vale anche per l’arte, cose che abbiano un grande impatto emotivo, senza andare a toccare sottilmente l’essenza, l’anima. Altri autori che mi hanno influenzato? Potrei citare Quasimodo per la luce… Montale per gli “inutili detriti” e poi Ungaretti :
“Di queste case/non è rimasto/che qualche/brandello di muro/(…)/E’ il mio cuore/il paese più straziato”
(S. Martino del Carso)
Mi sembra di cogliere una vena di tristezza profonda, che sottilmente inizia a pungere fin dalla prima opera qui in esposizione, passa attraverso le tue parole ed esplode poi in alcune rappresentazioni. Ad esempio questa: “Scissura”, che letteralmente significa divisione, discordia ed è comunque un chiaro segno di separazione insanabile di un insieme. Ti riconosci un po’ di pessimismo?
No. E’ la vita che è così. Noi siamo lacerati, anche se possiamo far finta di niente..
Qui, in “Scissura”, c’è uno strappo deciso, che sale, si riprende, provoca un distacco… ma c’è un filo che tiene, in tutti i sensi, anche tecnico, poiché appunto il materiale è sempre portato all’estremo, a un niente dal cedimento. Ecco: uno strappo, che potrebbe essere definitivo… però con un legame, anche sottile, che comunque resta.
Difficilmente opero dei distacchi definitivi, perché noi non ci stacchiamo mai definitivamente dalle cose, crediamo di staccarci, cerchiamo di farlo, ma il passato….
Vedi, in qualche maniera, noi riusciamo sempre a insabbiare le nostre ansie, più o meno. Cerchiamo di coprirle, di allontanarle. Ma ci sono, e io in questo modo le libero, anche portando il materiale stesso quasi al punto di rottura; c’è proprio un’opera che si chiama “Materia al limite”. Al limite, come lo sono spesso anche le nostre vite. Perché ogni materiale ha un limite di sopportazione oltre il quale si strappa, si spezza.
Una curiosità sui nomi delle opere. “Rigonfiamenti”, “Fratture”, “Tensioni”, “Sfibramenti”…
Sono in parte ripresi dal vocabolario dell’ingegneria, che sanno identificare una condizione di un materiale, e che ritroviamo persino in medicina, ma sanno così ben adattarsi ai nostri sentimenti – anche in psicanalisi vengono usati gli stessi termini. E psicanalisi = mente = anima. Si chiude il cerchio, no?
Davanti a “Torsioni”, così complessa nella struttura e libera nello spazio, senza un riquadro, non iscritta in un perimetro geometrico, lasciamo di nuovo la parola alla poesia, alle emozioni che sa comunicarci Baldo Meo:
Nessun dio ha dormito in queste celle.
Tutti i giorni un messaggero opaco
invoca la parusia grandiosa.
Vicino all’ora delle stelle precoci,
da questa grata guardo
e medito sulle contorte assi
di una casa sconvolta dal vento.
Davanti non fiorisce l’oleandro
né si sparge l’odore della menta.
Non chiede di noi
l’ospite che abbiamo visto entrare.
Antonio Bernardo Fraddosio, architetto, scultore, pittore e anche scenografo, in quale “corrente” o stile ti riconosci?
Io sono inserito nel filone dell’arte contemporanea informale italiana (vedi ad esempio il Fontana o il Burri, con il quale ultimo alcuni mi ritengono in antitesi). Tengo a sottolineare che questo genere di opere possono essere realizzate soltanto da un artista italiano, perché è presente molto classicismo e una cura nella rappresentazione della materia che è tipica dell’arte rinascimentale classica.
Alcune opere sono davvero imponenti, oltre che per l’emozione che trasmettono anche per le dimensioni, come ad esempio questa “Sconnessione” o la recentissima “La materia del tempo”, che dà il titolo alla mostra (e che chiuderà questa intervista), richiedono riflessione, osservazione. Bisogno di spazio e di tempo, quindi
Difficilmente riesco a lavorare su piccole dimensioni anche perché il materiale che uso ha bisogno di spazio per potersi piegare. Alcune opere possono essere definite – come qualcuno ha fatto – dei “racconti”, proprio per le varie sensazioni che rappresentano e suggeriscono. E quindi vanno osservate attentamente, da varie prospettive, da lontano, a volte intorno, ma sempre anche da molto vicino. Sono felice quando l’osservatore si accosta all’opera e la scruta, la analizza, cercando quasi di entrarvi fisicamente. Come faccio io, quando creo.
Avrei ancora molto da chiedere e soprattutto ancora tanto resterei ad ascoltare. Ma chiuderò con un’ultima domanda sulle scelte di vita. Quanto costa dedicarsi all’arte, in qualunque forma essa possa esprimersi?
Può costare tanto, certo. Ho coltivato per anni questa mia ricerca, continuando a lavorare. Ma a un certo punto della mia vita ho fatto una scelta e ho cercato di far coincidere il mio lavoro con la mia passione, perché altrimenti che cosa resta?
Ora vivo in provincia, tranquillo. Torno sempre a Roma, che amo e che sa darmi forti stimoli, che però riesco a mettere in ordine e rielaborare soltanto nella quiete della mia casa.
Ovviamente questo è molto difficile e implica una serie di rinunce, ma se c’è una motivazione forte le scelte si fanno. E le rinunce costano meno.
“La materia del tempo”.
Esco da questa esposizione un po’ malinconica, infinitamente più ricca.
Antonio Bernardo Fraddosio nasce a Barletta nel 1951. Trasferitosi a Roma sceglie la facoltà di architettura dopo aver frequentato studi artistici. Si laurea giovanissimo e intraprende un’intensa attività di progettazione nei diversi settori dell’architettura, dell’urbanistica e del design.
Svolge attività didattica presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Roma “La Sapienza” e insegna “arredo architettonico” presso l’Istituto Europeo di design. Il suo interesse per la storia dell’architettura e la storia dell’arte lo inducono ad intraprendere iniziative per il recupero e la protezione del patrimonio storico-artistico. Nel 1998 espone alcune opere nell’ambito della rassegna europea “Artisti per il 2000”, promossa dalla New European Art Research, nella Galleria Navona 42 a Roma; nel 2000 partecipa alla manifestazione “12 artisti per il Giubileo”; nel 2004 presenta dodici grandi opere nella mostra “Tensioni e Torsioni” curata da Gabriele Simongini nel Teatro Valle, infine nel 2007 è invitato a partecipare alla mostra “Baltico – Mediterraneo, Italia e Finlandia a confronto” curata da Sergio Rosi. Si misura, di recente, anche con il teatro, attraverso la realizzazione di scene che, nella volontà di interpretare il testo, assumono forma di sculture “abitabili”. Tra le scenografie più significative: “L’odore” di Rocco Familiari, regia di Augusto Zucchi, Festival dei Due Mondi, Spoleto 2003; Pavllosky, regia di Emanuela Giordano, Teatro Spazio Uno, Roma 2004; “Amleto in prova” di Rocco Familiari, regia di Mario Missiroli, Festival dei Due Mondi, Spoleto 2004; “Agata” di Rocco Familiari, regia di Walter Manfré, Teatro di Messina, 2005. Vive e lavora a Tuscania.
Intervista originale su Omero.it