27 Nov “Sulla soglia dell’invisibile”
di Gabriele Simongini
Antonio Bernardo Fraddosio non dipinge le forme, ma le costruisce, le mette in tensione, le articola e disarticola, le intreccia. Nella sua visione creativa non domina la certezza di un dogma assoluto e monadico. Ne è invece protagonista L’idea che nella vita ogni cosa, ogni evento, ogni sentimento, sono in relazione inestricabile con mille altri, in un continuum dinamico e complesso che rifiuta la piattezza del punto di vista univoco. Così, in modi e forme molto personali, Fraddosio si ricollega a quella stagione creativa che nella seconda metà del ‘900 ha portato alcuni rigorosi artisti italiani a dare vita all’avventura dell’attraversamento e del superamento della superficie della tela, verso altre dimensioni: i primi sono stati, già dal 1950, Lucio Fontana, con il suo magistrale gesto “barocco” di tagliare e forare òa tela, per far passare di lì la luce dell’infinito e Alberto Burri con i suoi inquieti ed accigliati “Gobbi” aggettanti. Subito dopo vanno poi ricordati Enrico Castellani, con le sue estroflessioni irte di chiodi eppur volte a captare una “concretezza d’infinito” attraverso un’interazione differente e quindi Agostino Bonalumi, capace di far respirare la tela con dinamiche estroflessioni ed introflessioni che letteralmente ci portano nel “battito cardiaco” del colore, verso espansioni ambientali assai coinvolgenti. Molti altri potremmo ricordarne, fra cui Piero Manzoni, Salvatore Scarpitta, Dadamaino, Paolo Scheggi. Sono tutti protagonisti di quella che è stata definita come “pittura oggettuale” proprio perché volta a realizzare prima di tutto un oggetto a funzione estetica assolutamente autonomo dall’idea tradizionale di pittura, di composizione e di colore.
Un quadro-architettura che trasmette una nuova concezione plastica ed ambientale, elettrizzante come una scarica di energia ma ben lontana da qualsiasi sentimentalismo o da suggestioni letterarie e narrative.
Mentre però molti degli artisti prima citati erano i cultori di un azzeramento radicale di qualsiasi emozionalità pittorica, volendo con ciò superare l’accademia esistenzialista di un informale allora troppo di moda, Antonio Bernardo Fraddosio non è interessato a fare una tabula rasa troppo radicale. Sa essere per certi versi minimale, dando voce a pochi colori e a strutture essenziali ma comunque lasciando parlare l’inquietudine di una materia che dà immagine a quelle che si potrebbero chiamare “cartografie dello spirito”, fatte di avvallamenti, anfratti, dirupi, sentieri interrotti, crepacci, pendii dilavati. Fraddosio è infatti un artista che crede nell’enigma dell’immaginario e che rifiuta quella insensata proliferazione di immagini del mondo mediatico di oggi, in cui, come ha notato Jean Baudrillard, “tutte le cose, private del loro segreto e della loro illusione, sono condannate all’esistenza, all’apparenza visibile, sono condannate alla pubblicità, al far-credere, al far-vedere, far-valere. Il nostro mondo moderno è pubblicitario nella sua essenza”.
Fraddosio invita così l’osservatore ad andare al di là delle apparenze, costringendolo a superare la pura contemplazione frontale per cercare una relazione multidimensionale, guardando dentro e a fianco di ogni opera. Ed è quello che accade anche con le scene per la pièce teatrale “L’odore”, con la materializzazione visiva di indicibili ambiguità e inquietudini inesorabilmente intrecciate e inestricabili, come quella passione irrefrenabile che va al di là delle singole individualità coinvolte.
Nelle sue opere Fraddosio mette in scena la strategia della tensione fra elementi opposti e soprattutto fra concavo e convesso: in un cortocircuito continuo l’artista spinge percettivamente fuori dalla superficie dell’opera l’osservatore con le forme convesse e subito lo invita a entrare dentro con quelle concave, quasi senza soluzione di continuità ma comunque suggerendo un ritmo percettivo che deve svolgersi nel tempo senza esaurirsi nel puro e semplice colpo d’occhio.
È il tentativo di fondere le due categorie di immagini di cui ha inimitabilmente parlato Robert Musil ne “L’uomo senza qualità”: “le immagini si dividono in due grandi gruppi opposti, il primo gruppo deriva dall’essere circondati dagli eventi, e l’altro gruppo dal circondarli, questo essere dentro una cosa e guardare una cosa dal di fuori, la sensazione concava e la sensazione convessa, l’essere spaziale come l’essere oggettivo, la penetrazione e la contemplazione si ripetono in tante altre antitesi dell’esperienza e in tante loro immagini linguistiche, che è lecito supporre all’origine un’antichissima forma dualistica dell’esperienza umana”.
D’altro canto nelle opere di Fraddosio si avverte tutta l’inquietudine di una ricerca che vuole fondere l’evento fenomenico – l’hic et nunc della crescita della forma nel suo farsi – con la costruzione strutturale che mira a superare qualsiasi dimensione contingente per sfiorare, almeno, un frammento d’assoluto. In questo senso l’incidenza e l’intensità della fonte luminosa hanno un ruolo fondamentale nella fruizione percettiva delle opere di Fraddosio, alleggerendo o intensificando le ombre dei rilievi, ad esempio, e quindi mettendo in scena l’eterna lotta tra luce ed ombra.
Così la presunta assolutezza della forma si relativizza sempre in rapporto al dramma della luce e conserva, in questa sua attitudine al cambiamento, una matrice vitale.
L’opera non è mai uguale a se stessa ma varia col mutare della luce del punto di vita. Per certi versi ogni lavoro racchiude molti altri lavori che si svelano a poco a poco secondo la capacità dell’osservatore di mettersi in gioco e di avventurarsi nella scoperta. Per Fraddosio il volto dell’arte è infatti proteiforme e dinamico.
Nel dar forma alla tensione fra elementi opposti Fraddosio dà anche vita alla dialettica fra unità e varietà. Guardando da una certa distanza le sue opere si ha infatti la chiara impressione di trovarsi quasi di fronte ad un muro, ad una parete impenetrabile. Viceversa, avvicinandosi, si percepisce una pluralità di possibilità e di aperture, di ipotesi vitali e di affioramenti immaginativi. In un certo senso l’opera si dà e si nega, invitandoci ad una contemplazione attiva e vigile, non passivamente subita, concepita come un’avventura nell’ignoto. Da muro diventa porta e soglia che separa il visibile dall’invisibile, ciò che è stato disvelato dal celato. È, forse, la concretizzazione di un organismo plastico che dà immagine all’incontro tra spazio interiore e realtà esteriore, non più separati ma fusi in una nuova identità.
In queste opere la volontà costruttiva di Fraddosio si lega indubbiamente, sia pur per via più metaforica che letterale, alla sua esperienza di architetto. Ma in qualche modo sono icone architettoniche della crisi, dell’inquietudine, della tensione, della frattura spirituale che però si ricompongono sempre in un’aspirazione all’ordine e all’armonia, come avviene da tempo immemorabile per ogni buon artista italiano, per sua natura innervato dal soffio dell’equilibrio classico della forma, della sapienza manuale, del culto per l’”oggetto” ben fatto, del connubio fra sensazioni e idee.
Gabriele Simongini